Luigi, ingegnere settantenne e appassionato di golf, aveva trasformato la sua routine mattutina in un rito privato. Nove buche, due volte alla settimana, sempre tra i primi a giocare. Il campo a quell’ora sembrava sospeso: pochi rumori, poche parole, ogni cosa al proprio posto. Quella mattina arrivò al circolo, si cambiò con gesti automatici, bevve un caffè al bar senza sedersi e ritirò dal caddie master il carrello elettrico con la sacca. Poi si avviò verso il tee della buca 10, un par 4 che conosceva a memoria. Il drive fu potente ma impreciso. La palla scivolò a destra e scomparve nel rough, sotto un grande albero. Cercandola nell’erba alta, ne trovò un’altra: nuova, pulita, lucida, con un piccolo logo sconosciuto. Lo osservò come se qualcosa non tornasse. Poi scacciò il pensiero. Sul campo era normale imbattersi in palle perse. La raccolse e se la mise in tasca.
Alla buca successiva decise di usarla. La pallina, colpita dal driver, esplose. Uno scoppio secco, improvviso, innaturale. Non abbastanza violento da ferirlo, ma sufficiente a lasciargli un ronzio insistente nelle orecchie. Per un istante il campo sembrò zittirsi del tutto. Le mani tremavano, ma erano intatte. Il bastone era integro. Intorno, l’erba annerita e un odore acre, metallico.
Un giardiniere lo soccorse e lo accompagnò alla clubhouse con il suo mezzo. Poi un addetto della segreteria lo riaccompagnò a casa. Tutto avvenne con una gentilezza frettolosa, come se fosse importante chiudere in fretta la faccenda. Il resto della giornata scivolò via senza lasciare traccia. Luigi continuava a tornare con la mente al tee della buca 11, allo scoppio, a quell’odore che non voleva abbandonarlo.
La sera chiamò il segretario del circolo. «Non so se sia stato uno scherzo», disse cercando un tono neutro, «ma qualcuno avrebbe potuto farsi male».
Il segretario ascoltò in silenzio. Un silenzio lungo, misurato. «Ne parlerò con il presidente. Domani faremo un controllo sul campo».
Nient’altro. Nessuna domanda. Nessuna curiosità.
Passarono alcuni giorni. Il circolo rimase aperto, ma qualcosa era cambiato. I soci parlavano sottovoce, con mezze frasi che si interrompevano non appena qualcuno si avvicinava. Qualcuno minimizzava, parlando di petardi o di bravate notturne. Nessun’altra palla simile fu trovata. O almeno, questo fu quanto si disse.
Una settimana dopo Luigi tornò a giocare. Non alla buca 10. Per scaramanzia, o forse per istinto, partì dalla buca 1. Alla terza, nel rough di sinistra, vide qualcosa brillare. Il cuore gli fece un balzo. Si avvicinò lentamente. Era un’altra palla, identica. Stesso logo. Non la toccò. Chiamò la segreteria e arrivò un marshal che la raccolse con attenzione quasi teatrale, infilandola in un sacchetto. «La porterò al segretario. Meglio non rischiare».
A casa, spinto da un’inquietudine che non riusciva a scrollarsi di dosso, cercò su internet. Scoprì che palline da golf capaci di produrre scoppi erano in vendita su un sito cinese, presentate come gadget per adulti o scherzi rumorosi. L’idea che qualcuno le avesse sparse deliberatamente sul campo lo turbò più della scoperta in sé.
Il giorno dopo ricevette una telefonata. «Il presidente vorrebbe salutarla. Se può passare oggi nel pomeriggio, verso le quattro». Luigi esitò. Poi accettò.
In segreteria trovò il presidente, il segretario e un uomo seduto leggermente in disparte. Un socio anziano che conosceva solo di vista. Uno di quelli che non intervenivano mai, ma sembravano sapere sempre tutto. Sul tavolo, dentro una busta trasparente, la pallina della buca 3.
«Abbiamo deciso di non coinvolgere subito le autorità», disse il presidente. «Prima volevamo capire». Indicò l’uomo seduto. «E ora crediamo di aver capito».
L’uomo sollevò lo sguardo. Aveva gli occhi arrossati, segnati più dalla stanchezza che dalla rabbia. «Non doveva andare così. Non doveva far del male a nessuno». Parlò con una calma disturbante, come se stesse elencando fatti amministrativi. Era socio da trent’anni. Aveva contestato decisioni del consiglio, chiesto chiarimenti, preteso trasparenza. Aveva ricevuto risposte vaghe, poi silenzi. Infine, inviti gentili a “non creare problemi”. «Volevo che il circolo facesse notizia. Volevo che emergesse un senso di pericolo. Qualcosa che costringesse il consiglio a dimettersi. Quelle palle fanno solo rumore. Dovevano servire a spaventare».
Luigi lo fissò. «E se qualcuno si fosse fatto male?» L’uomo abbassò gli occhi. «Ho sottovalutato». Nient’altro.
Il presidente intervenne con voce ferma: «La questione è chiusa. Le palle sono state recuperate. Nessuna denuncia. Il socio ha rassegnato le dimissioni e si è impegnato a risarcire eventuali danni». Luigi si alzò. «Allora è finita. Non c’è più nessun mistero». Uscì dalla clubhouse con una sensazione di vuoto. Il campo era perfetto, immobile, come se nulla fosse accaduto.
Non tornò più a giocare lì. Si iscrisse a un circolo più piccolo, meno elegante. Meno silenzi carichi di significato. Ogni tanto, nel rough, trovava palline perse. Le osservava sempre con attenzione. Poi le lasciava dov’erano. Non per paura. Aveva capito che, anche in un luogo costruito per il controllo e la misura, il vero pericolo non era uno scoppio improvviso. Era ciò che cresce in silenzio quando il rancore non trova più parole.